In occasione di Stramonio saranno proiettati i primi tre film realizzati dalla regista statunitense Maya Deren

–  Meshes of the Afternoon (1943)

–  The Witches Cradle (1943)

–  At Land (1944)

La selezione, curata da Toni D’Angela, fondatore e editor di La Furia Umana, sarà presentata presso la sede dell’Università dell’Insubria, venerdì 14 novembre alle ore 18.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il 16mm era molto diffuso negli Stati Uniti, più che in Europa, soprattutto nelle scuole e nelle università – effetto anche della superiorità economica e tecnologica del capitalismo americano – e tale attrezzatura leggera consentiva agli artisti di sperimentare.

Il gruppo originario dei pionieri era composto dalla coreografa di Kiev Deren, dal poeta e cineasta Willard Maas, sua moglie Marie Menken, i fratelli Whitney, Joseph Cornell, un piccolo gruppo dislocato fra New York e San Francisco.

L’avanguardia americana ha una connotazione stilistica molto forte, ha un suo principio. Meshes of the Afternoon (1943) di Maya Deren – realizzato in collaborazione con il marito Alexander Hammid – è l’inizio di questa storia che P. Adams Sitney ha raccontato esemplarmente – e anche vissuto in gran parte in prima persona – nel suo Visionary Film.

Maya Deren gira pochi ma fondamentali film fra il 1943 e il 1955, tutti in 16mm e quasi tutti cortometraggi: Meshes of the Afternoon, Witch’s Cradle (1944) con Marcel Duchamp, At Land (1944), A Study in Choreography for Camera (1945), Ritual in Trasfigured Time (1945), Meditation on Violence (1948), Ensemble for Somnambulists (1951) e The Very Eye of Night (1952-55).

Il primo film è un saggio sull’indiscernibilità di sogno e realtà che apre territori fino ad allora inesplorati. Graffiature, code di pellicola, blocchi bianchi (Witch’s Craddle): Deren forsenna il soggettile, il supporto e le convenzioni del film. Il décor astratto di Witch’s Craddle è costellato di oggetti impossibili, instabili, destabilizzati dall’uso libero della 16mm, più maneggevole della 35mm. Oggetti a più dimensioni, brani di una variazione musicale. Il film si fa musica, danza, pittura astratta, arte installativa. Tutta una texture coreografica disarticolata dai movimenti della macchina da presa.

At Land sviluppa ancora con più padronanza questo repertorio linguistico, impiegando slow-motion, reverse-motion per raffigurare una diversa concezione sia del tempo sia dello spazio. L’annodarsi della carne del corpo di Maya al corpo dei rami prelude all’annodarsi tra spazi e tempi fra loro distanti. Ancora una volta una dislocazione che concatena la spiaggia con il banchetto e questo con il giardino. Maya arrampicandosi sui rami sale sul tavolo e muovendosi sul tavolo attraverso il giardino. At Land è un cronotopo ritualistico e iniziatico.

Toni D’Angela